In Italia cresce il numero di lavoratori poveri, persone che pur avendo un impiego non riescono a superare la soglia minima di reddito. Secondo gli ultimi dati Istat e Eurostat, oltre 2 milioni di occupati sono considerati a rischio povertà. Salari bassi, inflazione e precarietà sono i fattori che alimentano questo fenomeno sempre più diffuso.
Il concetto di “working poor” descrive chi, pur avendo un contratto regolare, percepisce redditi insufficienti a garantire una vita dignitosa. Non si tratta di disoccupati o persone ai margini, ma di lavoratori che contribuiscono al sistema e pagano le tasse. L’Istat ha rilevato che il 10,2% degli occupati in Italia si trova in questa condizione. Sono circa 2,3 milioni di persone, tra dipendenti e autonomi. Una situazione che colpisce soprattutto il Mezzogiorno, ma che si estende anche al Nord, dove i costi della vita urbana peggiorano la vulnerabilità economica.
Il fenomeno si manifesta con intensità diversa a seconda del contratto: i lavoratori part-time raggiungono il 15,7% di rischio povertà, gli autonomi il 17,2%, mentre tra i full-time la quota resta al 9%. Secondo le elaborazioni di Banca d’Italia e Istat, la povertà non è più legata solo alla mancanza di lavoro, ma si radica tra chi lavora stabilmente, erodendo la classe media e aumentando le disuguaglianze sociali.
Il report Istat 2025 segnala che tra i 23 milioni di occupati, circa 2,3 milioni rientrano nella categoria dei working poor, ovvero chi ha un reddito disponibile inferiore al 60% del reddito mediano nazionale. La condizione peggiora nelle famiglie operaie, dove l’incidenza della povertà assoluta raggiunge il 15,6%, mentre scende al 7,4% per gli autonomi non imprenditori. Le famiglie con persona di riferimento occupata registrano un dato medio dell’8,7%, ma la trasversalità del fenomeno colpisce anche chi lavora in settori stabili.
Il divario territoriale resta forte: nel Mezzogiorno il 10,5% delle famiglie è in povertà assoluta, ma anche al Nord la percentuale si avvicina all’8%. In valore assoluto quasi la metà dei poveri italiani vive nel Nord (44,5%), soprattutto nei grandi centri urbani dove affitti e spese fisse pesano di più. Nei comuni sopra i 50mila abitanti l’incidenza supera l’8%, mentre nel Sud arriva al 12,5%.
Secondo Istat e Eurostat, il rischio di povertà lavorativa aumenta al diminuire del livello di istruzione: tra le famiglie in cui la persona di riferimento ha solo la licenza media l’incidenza è del 12,8%, che sale al 14,4% se possiede solo la scuola elementare. Al contrario, con almeno un diploma il rischio scende al 4,2%. La condizione peggiora anche per le famiglie numerose: tra quelle con cinque o più componenti la povertà assoluta tocca il 21,2%, mentre quasi una coppia con tre o più figli su cinque vive sotto la soglia minima.
I dati mostrano che a soffrire di più sono anche i minori: il 13,8% dei bambini e ragazzi vive in famiglie in povertà assoluta, pari a circa 1,3 milioni di giovani senza accesso ai beni essenziali. Il rischio cresce inoltre tra i nuclei monogenitore, in particolare donne sole con figli, dove l’incidenza è dell’11,8%. Per i giovani adulti (18–34 anni) la percentuale di povertà assoluta arriva all’11,7%, segno di un mercato del lavoro che non garantisce salari adeguati e stabilità. Anche la variabile anagrafica incide: tra le famiglie con persona di riferimento over 65 l’incidenza scende al 6,7%, ma tra gli anziani soli con pensioni minime il rischio resta elevato.
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