Il taglio Irpef 2026 promesso dal governo divide economisti e sindacati. La riduzione dell’aliquota al 33% per i redditi fino a 50.000 € è stata presentata come una misura per sostenere lavoratori e pensionati, ma secondo le stime della Cgil e le analisi di Il Sole 24 Ore e Repubblica, il beneficio reale sarà minimo per la maggior parte dei contribuenti. La vera questione resta il fiscal drag, ovvero il drenaggio fiscale dovuto all’inflazione, che continua a erodere il potere d’acquisto senza adeguamenti automatici delle soglie Irpef.
Il Ministero dell’Economia difende la misura come primo passo verso una più ampia riforma fiscale, mirata a rendere il sistema più efficiente e progressivo. Tuttavia, i dati ufficiali raccontano una storia diversa: il vantaggio medio per chi guadagna meno di 28.000 € sarà quasi nullo, con benefici concentrati solo nelle fasce medio-alte.
Secondo la Cgil, il rischio è quello di un provvedimento “a somma zero”, che non corregge le distorsioni strutturali del sistema tributario e che lascia intatto l’effetto inflattivo sulle tasse, aggravando ulteriormente il fiscal drag per lavoratori e pensionati già penalizzati. Vediamo nel dettaglio i numeri, le stime aggiornate e le proposte alternative oggi sul tavolo del governo.
La manovra fiscale per il 2026 prevede la riduzione della seconda aliquota Irpef dal 35% al 33%, applicabile ai redditi tra 15.001 € e 50.000 €. Tuttavia, come osserva la Cgil nel suo ultimo rapporto, la misura non avrà alcun impatto per circa il 70% dei contribuenti italiani, che dichiarano meno di 28.000 € lordi l’anno.
Le simulazioni diffuse da Il Sole 24 Ore e Italia Oggi mostrano che:
Si tratta, quindi, di incrementi marginali che non compensano l’aumento del costo della vita. Secondo il segretario generale della Cgil Maurizio Landini, «questo taglio non restituisce nulla a chi ha perso potere d’acquisto negli ultimi anni». Il sindacato sottolinea anche che la misura non affronta la questione del fiscal drag, che tra il 2022 e il 2024 ha generato un gettito aggiuntivo di oltre 25 miliardi di € per effetto dell’inflazione.
Un lavoratore dipendente che in tre anni è passato da 27.794 € a 30.993 € ha pagato 1.382 € in più di tasse, senza guadagni reali, mentre un pensionato con reddito salito da 16.900 € a 19.225 € ha perso 708 € di potere d’acquisto. A evidenziarlo sono le elaborazioni della Cgil riportate da Sky TG24 e Avvenire.
Per neutralizzare gli effetti del fiscal drag, la Cgil chiede l’introduzione di un meccanismo di indicizzazione automatica delle soglie Irpef all’inflazione. In questo modo, se i prezzi aumentano, anche gli scaglioni verrebbero aggiornati, evitando che i lavoratori finiscano in fasce di tassazione più alte senza benefici reali.
Tra le altre proposte, il sindacato suggerisce:
– la detassazione degli aumenti contrattuali, per proteggere i rinnovi salariali dall’effetto erosivo del fisco;
– una perequazione piena delle pensioni in base al costo della vita;
– l’introduzione di un contributo di solidarietà sulle grandi ricchezze, ovvero sui patrimoni oltre i 2 milioni di €, con un’aliquota dell’1,3% che garantirebbe circa 26 miliardi di € di gettito annuo.
Secondo Repubblica e MF-Milano Finanza, il confronto politico si concentra anche sulla distribuzione della pressione fiscale. A parità di reddito (35.000 €), un lavoratore dipendente paga circa 6.898 € di imposte, un pensionato 8.413 €, mentre un autonomo in flat tax ne versa 4.095 € e chi percepisce rendite finanziarie 4.375 €.
La Cgil denuncia dunque una “disparità strutturale” a favore dei redditi da capitale e autonomi, chiedendo un sistema più equo e progressivo.
Come riportato da Il Messaggero, il governo potrebbe introdurre un correttivo tecnico sul fiscal drag nella prossima manovra, ma l’impatto sarebbe limitato e non retroattivo. Per i sindacati, la priorità resta costruire un sistema fiscale che alleggerisca davvero il peso su lavoro e pensioni, redistribuendo la ricchezza in modo più equilibrato.
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