Un errore di interpretazione può costare caro a chi assiste un familiare con disabilità grave, ma c’è un dettaglio normativo che cambia completamente le carte in tavola. La legge, spesso fraintesa, non impone il cambio di residenza per chi chiede l’APe Social in qualità di caregiver. Eppure, in tanti ancora oggi rinunciano al beneficio per paura di non rispettare i requisiti. In realtà, la normativa parla chiaro e offre più flessibilità di quanto si creda. Le parole esatte contano, e in questo caso aprono la strada a un diritto che può fare davvero la differenza. La burocrazia può essere aggirata senza forzature, se si conoscono le regole giuste da applicare.
Chi vive questa situazione lo sa: prendersi cura di un parente in gravi condizioni di salute è un impegno totale, che spesso stravolge la vita quotidiana. E quando si cerca di ottenere l’APe Social, ogni dettaglio diventa cruciale. Molti pensano, erroneamente, che sia indispensabile trasferire la propria residenza anagrafica per dimostrare la convivenza con il familiare disabile. In realtà, quello che la legge richiede è qualcosa di molto diverso.

Non si tratta di compilare il certificato di stato di famiglia o di figurare nello stesso registro anagrafico. Il concetto di “convivenza” richiesto dalla normativa non coincide con quello anagrafico, ma si riferisce alla presenza stabile e continuativa nella stessa abitazione, anche se la residenza rimane altrove. Un dettaglio che cambia tutto, soprattutto per chi, per motivi patrimoniali o personali, non può o non vuole modificare la propria residenza.
Convivenza valida ai fini dell’APe Social anche senza residenza ufficiale nella stessa abitazione
La legge 232/2016, al comma 179, stabilisce che può accedere all’APe Social anche chi assiste un familiare in situazione di handicap grave, purché sia un parente “convivente”. Ma il termine va interpretato alla luce di quanto chiarito dall’INPS con la circolare 100/2017, che ha sciolto ogni ambiguità: non è la residenza a fare la differenza, bensì l’effettiva presenza costante e duratura accanto alla persona assistita.

Nella pratica, basta una autodichiarazione in cui si attesta di convivere con il parente da almeno sei mesi. Non serve certificato di residenza né l’inserimento nello stesso stato di famiglia. Questo significa che un figlio può continuare a vivere ufficialmente nella propria casa, ma trascorrere gran parte del tempo presso l’abitazione del genitore disabile, garantendo un’assistenza quotidiana. E questo è sufficiente per accedere al beneficio.
La posizione del Comune in questa materia è irrilevante: non può imporre requisiti diversi né vincolare la concessione dell’APe Social alla residenza anagrafica. Solo per eventuali agevolazioni locali, come contributi comunali o sconti, potrebbero valere altre regole.
Una norma che riconosce il valore reale della cura senza formalismi anagrafici
Dal 2018, il beneficio si è esteso anche a parenti e affini entro il secondo grado, permettendo a più persone di accedere all’anticipo pensionistico previsto per chi presta assistenza. Il punto centrale rimane sempre lo stesso: non serve dimostrare di abitare legalmente nella stessa casa, ma di essere presenti in modo costante nella vita e nella quotidianità della persona con disabilità.
Un esempio pratico chiarisce bene la questione. Una donna, pur mantenendo la sua residenza nel Comune dove lavora, ha iniziato a dormire e a prestare assistenza presso l’abitazione del fratello disabile. Nessun cambio ufficiale, solo una scelta di vita e responsabilità. Eppure, grazie alla sua autodichiarazione e alla documentazione sanitaria del fratello, ha ottenuto l’APe Social senza problemi.
Questa apertura normativa rappresenta una risposta concreta a una realtà diffusa. Non sempre è possibile o conveniente cambiare residenza, ma questo non deve ostacolare chi si prende cura di un familiare in difficoltà. Resta però fondamentale comprendere bene i requisiti e non farsi frenare da informazioni imprecise.