La Sentenza numero 23.876 del 26 agosto 2025 delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione sancisce un principio forte.
Il lavoratore che ha percepito la Naspi dopo la cessazione di un contratto a termine non è obbligato a restituirla anche se poi sopravviene la conversione in un rapporto a tempo indeterminato con effetti retroattivi. Il motivo addotto dalla Suprema Corte è che il periodo tra la fine del contratto e la conversione nel rapporto a tempo indeterminato costituisce comunque uno stato di disoccupazione reale durante il quale non c’è stata retribuzione e contribuzione.

Dunque, la Naspi non è stata erogata tradendo la normativa che la istituisce, ma anzi è andata proprio a colmare quel vuoto retributivo e contributivo, che è lo spirito con il quale è stata creata. Tra l’altro, la sentenza opera anche un’utile distinzione tra la Naspi e l’indennità risarcitoria prevista dalla Legge 183 del 2010, che appunto è un risarcimento e non ha valenza previdenziale.
Non c’è sovrapposizione, ma leggi bene
Queste due indennità hanno scopi differenti e dunque possono coesistere senza che la sovrapposizione sia in contrasto con la normativa. La Naspi garantisce un sostegno quando manca il lavoro, mentre l’indennità risarcisce dal danno inferto al lavoratore da un contratto illegittimo. Questa pronuncia è assai importante perché mette fine, o almeno si spera, a un contrasto giurisprudenziale in materia e lo fa tutelando maggiormente il lavoratore.

Le conseguenze concrete per i lavoratori a termine sono rilevanti. Innanzitutto, il lavoratore a termine dovrà ricevere il medesimo trattamento dei lavoratori a tempo indeterminato dello stesso livello sia dal punto di vista economico che normativo. Tra l’altro, se il contratto continua oltre certi limiti si trasforma automaticamente in rapporto a tempo indeterminato.
Se ci sono violazioni formali dei limiti dell’uso dei contratti a termine, ad esempio se si superano le percentuali ammesse, il contratto anche in questo caso si trasforma in contratto a tempo indeterminato oppure il datore di lavoro deve pagare sanzioni amministrative.
Come sfruttarla
Il lavoratore ha 180 giorni di tempo dalla cessazione per impugnare. Se c’è abuso o illegittimità, può ricevere un risarcimento per il danno subito. In base all’importante sentenza in parola, il lavoratore può ben contestare un recupero della Naspi. Per fare questo, bisogna preliminarmente verificare la legittimità del recupero.
Se la Naspi è stata erogata relativamente ad un periodo in cui il lavoratore era effettivamente disoccupato, come nel caso della sentenza, il recupero non è giustificabile.
A questo punto, si dovrà presentare un ricorso amministrativo all’INPS entro 90 giorni. In questo ricorso si dovrà chiaramente richiamare la sentenza di cui stiamo parlando, cioè la 23.876 del 2025. Inoltre, si dovrà dimostrare la condizione di reale disoccupazione.